Maccarruna, testê turcu e rrisu ntaanu: il pranzo di carnevale

Ci fu un tempo in cui il carnevale ricorreva una volta l’anno e i latini avevano coniato la massima secondo la quale semel in anno licet insanire, una volta l’anno è lecito fare cose da pazzi. Oggi, invece, che il mondo è un po’ impazzito (tanto è vero che, secondo qualcuno, ci guarderebbe), almeno qui da noi, ogni giorno è carnevale, ogni giorno è lecito fare cose da pazzi. E a noi, ogni giorno, tocca vedere cose da pazzi. Come le videocamere poste all’interno del cimitero che con chiaro tono intimidatorio vorrebbero dire a chi si è tolto dai nostri guai: non pensate che appena se ne va il custode qui comincia la caciara. State attenti, perché qui c’è poco da scherzare. Da oggi, chi si muove è morto! Poveri noi.

Ci fu un tempo in cui la cucina era arte culinaria e non food parade. E il cibo aveva una sua precisa ritualità e non era ostentazione, altro che street food e finger food. Anzi, a tavola, se qualche sprovveduto usava i finger per afferrare il food gli facevano cadere le mani ccu tuttu u rradicuni. Quando il desinare era una pratica veramente slow, non solo a parole, non solo di facciata, non esclusivamente speculativa, in quel tempo, il cucinare era slow a maggior ragione, in quanto il tempo non era una variabile determinante nei processi di trasformazione degli alimenti. E gli alimenti erano a chilometro zero senza bisogno di alcuna certificazione: l’esatto contrario di quanto avviene oggi. In quel tempo, anche nelle note e non rimpiangibili ristrettezze di allora, nei giorni di carnevale, come diceva la mia bisnonna, si mangiava sette volte.

A dire il vero, non solo in paese ma in tutta la Sicilia, si cominciava a fare bagordi tre o quattro giovedì prima di carnevale. Nelle alte Madonie la tradizione resiste e, ancora oggi, si festeggia il giovedì dei compari, poi quello delle comari, indi quello degli amici e infine il giovedì grasso, naturalmente seduti al cospetto di tavole riccamente imbandite. A Castelbuono, invece, per quel che io so, se mai c’è stata questa tradizione, si è persa tanto tempo fa, sopravvivendo – ma non so veramente quanto, oggi, solo quella dû iùovi rassu.

Fino a non moltissimi anni fa, la serata del giovedì grasso era movimentata, in piazza incontravi tantissima gente vestita in maschera che scherniva i numerosi affezionati della passeggiata, in tanti luoghi si teneva u sùonu (si diceva che c’erano i rrarutti apìerti) e si ballava fino a tarda notte. Ora, in piazza c’è la morte civile, che scandisce i rantoli di un paese al tramonto. Diversamente dagli altri paesi delle Madonie, e in linea con le usanze della parte più occidentale della provincia, a Castelbuono l’indomani del giovedì grasso si festeggiava u vènniri dû zzuppiddru, dove u zzuppiddru nella credenza popolare siciliana è il diavolo che spinge al divertimento, all’allegria e alla voluttà. E a mangiare in maniera smodata, anzi per usare la giusta similitudine: a mmanciari com’un pùorcu. Infatti, nella tradizione popolare, la figura di Carnevale è assimilata a un porco. Prova ne sia che, nell’attesa del carnevale, in paese si diceva: ora veni ddru pùorcu di Cannilivari e si mancia. E nei due giorni topici che precedono il carnevale si soleva dire: iùovi rassu e vvènnir’i zzuppiddru c’un si càmmara mali ppi iddru cioè chi non mangia carne per il giovedì grasso e il venerdì successivo, peggio per lui. Dove il misterioso termine cammaràrisi, significa ‘mangiare carne nei giorni di astinenza, rompere il digiuno’.

Ma cosa si preparava a carnevale per banchetti così gargantueschi? Direi che erano più le quantità che le varietà a sbalordire. Il primo piatto era sempre costituito dai maccarruna a ssucu. I maccarruna, che naturalmente, non hanno niente a che vedere con quelli che a volte ti propinano in giro, erano confezionati in casa, fatti a mano a unu a unu. E qui c’è da dire che chi non li ha mai mangiati non potrà neppure lontanamente capire di cosa stiamo parlando, potrà forse percepire cosa si è perso. I maccarruna di cannilivari hanno la lunghezza di mezzo spaghetto e risultano più sottili dei bucatini anche in ordine allo spessore del buco. Si impastavano un paio di giorni prima dell’uso facendo un pastone ben sodo con farina, acqua, sale e uova. Le uova, a differenza di quanto avviene nella preparazione dî tagliarini, dove sono opzionali, erano necessarie per conferire elasticità alla pasta onde poterla stendere con la bbura. Già, c’è pure la bbura. La bbura è lo stelo secco dell’erba mazzolina (Dactylis glomerata).

Dopo avere tagliato dal pastone un po’ di pasta, si spiana sommariamente con il matterello, la si taglia a strisce larghe un paio di centimetri e da ciascuna si ricavano tanti pezzettini simili a uno gnocchetto (na vittiddra). La vittiddra si avvolge attorno alla bbura e con movimento rotatorio della mano sulla pasta, posta su una spianatoia (u scanaturi) lievemente oleata, si allunga fino a quando non raggiunge la lunghezza di una dozzina di centimetri. La maestria interviene in questo momento perché, giunti alla lunghezza desiderata, bisogna imprimere una decisa rotazione in senso contrario, che permette al maccherone di staccarsi dalla bbura. Ora, con un movimento deciso che dà solo l’esperienza, il maccherone si sfila dalla bbura e si lancia su un ripiano poco vicino, ricoperto con una tovaglia sulla quale si cosparge della farina affinché i maccarruna non si attacchino. I ricordi della mia infanzia sono indissolubilmente legati a diverse donne sedute nei pressi della cunculina con la spianatoia sulle gambe, intente ad allungare la pasta con la bbura e a lanciare i maccheroni su un tavolo posto nei pressi, dove noi bambini avevamo il compito di prelevarli accuratamente e di arringalli, di disporli in righe e colonne sulla tovaglia. Sarebbero rimasti in quel letto per almeno otto ore, quindi si sarebbero potuti ritirare e sistemarli in un contenitore, generalmente un cesto di vimini. Non era raro che il giorno della produzione dei maccarruna tutti i ripiani della casa, fissi e mobili, fossero apparati di maccarruna stesi ad asciugare. Ricordo che spesse volte, per far fronte alle esigenze della produzione e ottimizzare gli spazi, si sistemavano anche sul letto, quello vero, dove si dorme.

Il condimento dei maccarruna era esclusivamente a base di sugo di carne di maiale, una vera devozione. A ogni pùorcu veni lu so Cannilivari, dice un proverbio non nostro ma che chiarisce il nesso fra le due cose. Anche per la preparazione del sugo cci vulìeva u bbeddru tìempu perché, tutti siamo titolati ad argomentare, a disquisire, soprattutto chi non sa niente, ma la cottura, specialmente del sugo di carne – ma anche quella del bollito o dei legumi – se non è fatta nella pentola di coccio, alimentata da una furnacella a carbone, fa sì che il gusto sia completamente alterato. Un po’ come mangiare la bresaola a Chiavenna prodotta dal macellaio e conservata nel crotto oppure quella comprata al supermercato: una distanza siderale fra le due. Ecco perché in cucina, per una certa cucina, il tempo non può assurgere a tiranno. Per fare il sugo di carne non si può prescindere dal concentrato di pomodoro, u strattu, e dalla cottura, in pentola di coccio, a fuoco assai tenue per un tempo lunghissimo. In passato, il sugo si lasciava cuocere – si lassava ncapu – per l’intera notte sotto l’azione del potere calorifero di due pezzettini di carbone accesi e l’indomani mattina era bell’e pronto. Certo, ci vuole il tempo che ci vuole, ma quando si fa in questo modo, più che altro ci vogliono papille gustative per apprezzare. Con questa bontà divina si condivano i maccarruna, la cui cottura richiedeva non più di due minuti, e qualcuno particolarmente spiritoso – ma si faceva ordinariamente, in paese – per sottolineare quanto fosse purcarusu Carnevale, soleva mangiarli facendoseli servire in abbondanza dentro un orinale di quelli usati per altri scopi fino a poche ore prima. Altro che la nouvelle cuisine di oggi che il cibo, anzi il food, nel piatto bisogna cercarlo disperatamente.

I secondi piatti della festa di carnevale, se si eccettua qualche famiglia che soleva preparare il capretto al forno affogato nello strutto assieme alle patate, che avrebbe messo a repentaglio anche l’attrezzato apparato digerente dello struzzo, erano esclusivamente a base di carne al sugo e di salsiccia, anch’essa al sugo, a mai finire. Oggi noi, che con l’entrata degli americani, abbiamo conosciuto il DDT e i suoi effetti, vorremmo dare a intendere che il pidocchio ha la tosse, specialmente parlando di aperitivo rinforzato. Ma in anni lontani, si soleva rinforzare questi secondi piatti con una vera e propria bomba alimentare. Si chiamavano canaletti e se qualcuno vuole provare la morte dolce è sufficiente che ne mangi quattro a cena e può già chiamare Santi Leta, non il coordinatore di Castelbuono in Comune, si capisce, ma il cugino pompefunebraio.

Che cosa siano i canaletti è presto detto. Si tengano a portata di mano: cacio fresco tagliato a fette di 10x6x1 centimetri circa, ragù assai ristretto di tritato, ma allora era appropriato chiamarlo capoliato perché, prima del tritacarne, la carne veniva capuliata sopra u ccippu ccû satuni, che poi era un coltellaccio da colpo usato dai macellai esclusivamente per battere la carne. Poi due uova sbattute e pan grattato. Dopo avere immerso per qualche istante la fetta di cacio fresco nell’acqua bollente, si estrae, si sistema su un piatto piano e, pressandola con una forchetta, per la sua migliorata malleabilità, si riesce ad aumentarne la superficie. A questo punto si preleva una cucchiaiata di ragù ristretto, che poi si chiama rraoncinu, si situa sulla fetta di cacio fresco e la fetta si avvolge su se stessa a mo’ di panzerotto. Dopo averla sigillata con la chiara d’uovo, si passa nell’uovo frullato, si impana e si frigge. Per gustare al meglio i canaletti bisogna mangiarli caldi, via via che escono dal pentolino di alluminio, che poi sarebbe il bisnonno della friggitrice.

Così conciati, supportati da grande levità gravitazionale, si sferra l’attacco ai dolci. Anche se Pitré nella narrazione dei pranzi di Carnevale del palermitano, a questo punto inserisce laute passate di finocchi, se non altro per togliere u stùpitu spalmato sulle mucose dalla corazzata lipidica che vi è transitata, non penso che nelle nostre mense fosse prassi diffusa una tale sciccheria – ce la saremmo concessi solo molti anni dopo – preferendo invece, nello stato ebraico in cui eravamo e siamo, di passare sic et simpliciter, all’abbraccio letale con la testa di turco della quale, come da regolamento, non se ne possono trangugiare meno di due porzioni pro capite. A testô turcu è un dolce di grande vitalità e variabilità. Non è per niente esagerato affermare che su tremila famiglie residenti si potrebbe riuscire nell’impresa di testare almeno tremila ricette differenti. Infatti, c’è chi la fa con gli Oro Saiwa al posto della scòrcia, c’è chi – sempre per sbrigarsi – ma anche per recuperare avanzi del non lontano Natale, utilizza il pandoro o il panettone: però, volete mettere il fascino proibito dell’uvetta passa che si contamina (che termine!!!) con la clema? Una volta mi è stato riferito di una pregiata testa di turco fatta con i pavesini. A dire il vero, in questo periodo in cui «l’arte della cucina nella nostra Castelbuono è stata elevata a cultura» mi intriga tantissimo l’accostamento dolce-salato e anelerei a sperimentare una audace testa di turco fatta con i crackers e la clema cosparsa di pepe verde in grani. Chissà se mia moglie, trovandosi nello stato spirituale di ‘confessata di fresco’, me la fa. O magari approfitta dell’occasione e, finalmente, mi fa … le valige. Voi naturalmente tifate per la seconda eventualità. Vediamo cosa succede. Una trattazione completa, esaustiva, minuziosa, della testê turcu, che va dalla corretta accensione del fuoco per scaldare il latte per la crema, all’inclinazione ideale che bisogna dare al cioccolato rispetto alla rattalura, allorché si grattugia, la potete trovare a questo link A testô turcu della mamma è la più buona.

Ma non è finita qui, perché non è pranzo di cannilivari se a questo punto non c’è u rrisu ntaanu. Si tratta, come sapete, di un riso cotto in poca acqua e preliminarmente condito con molto zucchero, noce moscata e zafferano. Lo zafferano serve a conferire quel caratteristico colorito giallo, identico a quello che non può nascondere in viso chi è fortemente ncolaratu per tutta una serie di motivi che non sto qui a dirvi. Dopo avere aggiunto una consistente quantità di formaggio fresco tagliato a cubetti, si rrumina per amalgamare il tutto e poi si versa in un capace contenitore, ma sarebbe più giusto – data l’enorme richiesta – versarlo nnô lemmu. Si può anche procedere, più ordinatamente, a ssùolu a ssùolu: un suolo di riso e uno di formaggio, fino ad arrivare quasi all’orlo. A questo punto, si passa alla guarnitura: si friggono, facendole dorare, delle stoffe triangolari di cacio fresco che vengono disposte in superficie, fino a coprirla quasi del tutto, quindi si passa un leggero strato di zucchero mparpàbbili

Una versione storica, per la finitura prevede di versare sullo strato superficiale quattro uova frullate miste a cannella e far cuocere a fùocu di supra e fùocu di sutta finché l’uovo non si sia rappreso. Ora, anche se u cannarùozzu fa nnicchi e nnacchi, bisogna armarsi di santa pazienza, e noi castelbuonesi ne abbiamo da vendere, al punto di esserci meritati già nell’Ottocento il blasone di chianca di corna, e aspettare che si raffreddi. Perché u rrisu ntaanu si mangia freddo o, al massimo, se proprio vi sta scappannu, tiepido. E non mettetevi lì a guardarlo, pensando di raffreddarlo con lo sguardo, perché dietro si annida un complicato processo quantistico, identico a quello che governa l’acqua messa a scaldare, in base al quale, passando dalla meccanica quantistica alla saggezza popolare, a pignata taliata un vuddri.

Per i più malfermi di stomaco, si fa per dire, nelle famiglie gastronomicamente meno combattive si preparava u bbiancu manciari, una crema di latte alquanto densa, dalla consistenza simile al budino, a base di una tonnellata di amido, zucchero, aromatizzata con vaniglia e limone  che si soleva servire su una foglia di limone. Ma anche un dolce light, vale a dire u rrisu ccû latti. Devo all’attenzione del mio grande ammiratore Giuseppe, commentatore frequente dei post di CastelbuonoLive, che ringrazio vivamente, la segnalazione di questo piatto, fattami in occasione della pubblicazione del pezzo sulla testa di turco dello scorso anno. In alcuni dolci a base di riso, come u rrisu ccû latti, dice Giuseppe, non c’è bisogno di aggiungere amido ma solo latte, zucchero o altri dolcificanti come il miele e la cannella per aromatizzare. Ciò perché il riso cotto nel latte, con la frantumazione dei chicchi rilascia amido, che addensa il tutto. La massa di riso e latte, una volta cotta, si cosparge di cannella e si serve. E’ un piatto carnevalesco che si prepara in diversi paesi circonvicini e anche nell’interno della Sicilia e, talvolta, anche a Castelbuono anche se da noi è di gran lunga più attestata la versione a base di abbondante cioccolato e cannella che, pertanto, prende il nome di rrisu turcu o anche rrisu nìviru.

Quando ancora non c’erano le chiacchiere, e neanche i tabbaccheri i lignu, a carnevale, per stuzzico, si facevano i zzìppuli ottenute impastando tre once (200 g) di strutto con la farina che prende un litro di acqua. La pasta ottenuta si stendeva col matterello per ricavare poi, con la rotellina, delle forme allungate, vagamente triangolari, che si friggevano in abbondante olio di oliva. Dopo averle fatte scolare, si mettevano a riposare nella carta camoscina perché rilasciassero altro olio e infine si servivano, abbondantemente spolverate di zucchero mparpàbbili. I nostri avi, avevano il coraggio civile, verso le sei del pomeriggio, reduci da una cavalcata gastronomica come quella qui narrata, per scongiurare anche una vaga forma di allammicu, di rinzeppare lo stomaco con due piatti di friabili zippole, accompagnate con un bicchierino di vino moscato o di malvasia.

Nel frattempo si facevano le otto e che fa, non dovevano prendere manco un muzzicuni?? Partivano con un paio di cardi fritti in pastella, per aprire – un po’ come si apre a poker, l’appetito – e poi di nuovo, come se rompessero un digiuno che si protraeva da un mese.

La serata si chiudeva, si fa per dire, con balli, danze, musica, ricevimenti di mascarati e qualche gruppo che veniva a farti la maschera in casa. E qui, naturalmente, di nuovo passate di dolci e vìppita, o meglio abbondanti libagioni. Mio padre mi ha raccontato che, durante i loro tour in cui rappresentavano la maschera casicasi, in diverse case di notabili, i fangotta di testê turcu si susseguivano a perdita d’occhio, così come u rrisu ntaanu. E ancora una impressione maggiore destavano i corbelli stracolmi di cannoli, vale a dire svariate centinaia di cannoli. C’è di vèniri a cunfusioni anche a posteriori, soprattutto se si pensa al tempo che ci voleva per preparare le cialde e per ottenere la crema di ricotta. Ma si coglieva l’attimo, e si sapeva cogliere, ci si divertiva e si rideva, e si sapeva ridere, e non finiva carnevale se, almeno una sera, non si andava al veglione, dapprima nel Teatro di corte, poi Teatro Comunale – altro che il teatrino di cui parla qualche dottore Azzecca-garbugli – e infine alle Fontanelle. Sì, al Cine teatro Le Fontanelle.

Iscriviti per seguire i commenti
Notificami

2 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
2
0
Cosa ne pensi? Commenta!x